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lunedì 9 febbraio 2015

Eccoci a 81 giorni di distanza da Expo Milano 2015, la grande Esposizione Universale che sarà il più grande evento mai realizzato sull'alimentazione e la nutrizione e che avrà luogo proprio nel nostro Paese.
Il tema m'interpella alquanto: le origini campane di mio marito mi sollecitano a un confronto particolarmente coinvolgente con i temi legati all'alimentazione per l'importanza che questi assumono in quella che è ormai conosciuta come Terra dei Fuochi. Alla luce di un disastro ambientale di tali proporzioni, i cittadini campani si sentono inermi nell'affrontare quotidianamente un atto naturale e necessario come nutrirsi.
Sono questi i pensieri che mi riportano inevitabilmente ad anni andati, quelli in cui le tradizioni di famiglia legate all'alimentazione e che accompagnano ognuno di noi lungo l'intero arco di vita sono strettamente legate all'ambiente geografico di provenienza, al luogo dove siamo nati e cresciuti. Inevitabilmente, allora, un cibo diventa casa e famiglia e sicurezza e amore.
Sono nata in Abruzzo, a Pescara, e anch'io "porto il limo della terra d'Abruzzi, porto il fango della mia foce alle suole delle mie scarpe, al tacco dei miei stivali", come diceva il Vate d'Annunzio e, ricordando le mie origini, desidero condividere la ricetta di quel dolce assolutamente pescarese che il Parrozzo.
Esso fu "ideato e preparato nel 1920 da Luigi D'Amico, titolare di un laboratorio di pasticceria a Pescara. D'Amico ebbe l'idea di fare un dolce dalle sembianze di un pane rustico anche detto pane rozzo (da cui è derivato il nome "Pan rozzo"), che era una pagnotta semisferica che veniva preparata dai contadini con il granoturco e destinata a essere conservata per molti giorni. D'Amico fu ispirato dalle forme e dai colori di questo pane e riprodusse il giallo del granoturco con quello delle uova, alle quali aggiunse la farina di mandorle; invece, lo scuro colore dato dalla bruciatura della crosta del pane cotto nel forno a legna fu sostituito con la copertura del cioccolato.
La prima persona alla quale Luigi D'Amico fece assaggiare il parrozzo fu Gabriele D'Annunzio, che, estasiato dal nuovo dolce, scrisse un madrigale "La Canzone del Parrozzo"

E' tante 'bbone stu parrozze nove che pare na pazzie de San Ciattè, c'avesse messe a su gran forne tè la terre lavarata da lu bbove, la terre grasse e lustre che se coce... e che dovente a poche a poche chiù doce de qualunque cosa doce...". Gabriele D'Annunzio[1]


E allora, ecco la ricetta...
Pesate 100 grammi di zucchero. Scottate 70 grammi di mandorle dolci e 50 grammi di mandorle amare in acqua bollente, pelatele e pestatele nel mortaio con due cucchiai dello zucchero. Sbattete in una terrina i rossi di cinque uova con il resto dello zucchero, unite le mandorle pestate, 70 grammi di fecola di patate e 50 grammi di farina, versando un poco dell'una e un poco dell'altra, alternate. Aggiungete quindi 80 grammi di burro fatto sciogliere in un tegamino e infine le chiare delle uova montate a neve, avendo cura di incorporarle con  delicatezza. Ungete di burro una tortiera, versateci dentro l'impasto, mandate in forno già caldo per circa 40 minuti. Intanto, fate sciogliere il cioccolato (prima tagliato a pezzetti) in un tegame a fuoco molto basso, quindi versatelo caldo sul parrozzo quando questo sarà giunto a cottura. 

Il parrozzo è Pescara...



[1] http://it.wikipedia.org/wiki/Parrozzo

venerdì 23 marzo 2012

Dopo anni di duro lavoro...



Come posso non condividere quest'immagine che ricevo da una mia cara amica nonché collega? "Lievemente" paradossale e dissacratoria, c'invita a un po’ di sana autoironia... 

martedì 21 febbraio 2012

Riunione online: 2012/02/15


Ecco il video con le mie riflessioni per la riunione online del quindici febbraio scorso. Ne approfitto per congratularmi con Marvi anche pubblicamente, dopo averlo fatto in privato. Mi dispiace immensamente non essere stata al suo fianco, ma quella sera non potevo agire in modo diverso. Ero certa che se la sarebbe cavata egregiamente e che il suo contributo sarebbe stato assolutamente interessante. Qualche piccola difficoltà tecnica credo che non abbia tolto nulla al piacere di seguirla e, del resto, è sembrata inevitabile per tutti quelli che si sono messi alla prova nell'impresa.
A proposito di quanto sostenuto da Andreas sulla necessità di divulgare codeste buone pratiche, vorrei comunicare che tra gli obiettivi del progetto Learning4All (cui faccio riferimento nel post precedente) c’è anche la creazione di un repository online nazionale di esperienze indicative di tecno – didattica realizzate (o in corso d’opera) da docenti delle scuole italiane di ogni ordine e grado. Scopo del repository è proprio quello di favorire un fecondo interscambio tra docenti che animano tale dimensione e che desiderano condividere la propria esperienza rendendola nota a tutti. Particolare attenzione, infatti, è posta al sistema d’indicizzazione proprio per consentire ai docenti una ricerca agevole e veloce di esperienze che possano costituire fonte d’ispirazione per il proprio lavoro. Attualmente, la creazione del repository è in corso d’opera e, appena pronto, la notizia sarà diffusa in tutto il sistema scolastico nazionale. Credo sia un buon inizio per cominciare ad aprirsi alla comunità scolastica.



mercoledì 15 febbraio 2012

Riunione online: del brainstorming iniziale

VIDEO – FILM MAKING: LA CLASSE COME UN SET

Una delle molteplici occasioni per riflettere su questa sfida nasce dal lavoro che svolgo nell’ambito del progetto “Learning4All”, un piano triennale di ricerca FIRB [Fondi di Investimento per la Ricerca di Base] finanziato dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca [MIUR] coordinato dall’HOC – LABORATORY – DEI del Politecnico di Milano.
Il progetto L4ALL ha lo scopo di indagare come le Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione (TIC) intervengano nel modificare la didattica nella scuola italiana, creando nuove opportunità da un lato ed evidenziando nuovi problemi dall’altro.
Una parte del mio lavoro consiste nell’intervistare docenti che abbiano realizzato o stiano realizzando indicative esperienze didattiche basate sull’uso di tecnologie. Essi lavorano nelle scuole di tutta Italia di qualsiasi ordine e grado, dunque rappresentano un campione assai significativo. I docenti sono intervistati in due momenti diversi: in fase di Expectations [prima di cominciare l’esperienza] e in fase di Results [a completamento dell’esperienza]. Una certa parte dei docenti intervistati ha partecipato [o partecipa] al progetto PoliCultura [sicuramente noto ai colleghi], un’iniziativa del suddetto Laboratorio HOC che coinvolge allievi delle scuole di ogni ordine e grado nella realizzazione di narrazioni multimediali con 1001Storia, motore multimediale facile e intuitivo messo a disposizione gratuitamente dal Politecnico di Milano che, senza richiedere alcun prerequisito tecnico, restituisce un’applicazione multicanale.
Ciò che emerge, a mio avviso, da questo lavoro con focus rilevante sul reporting di un’esperienza didattica è la difficoltà che noi docenti abbiamo nel “raccontarci”. Capita, infatti, che esperienze didatticamente straordinarie non emergano chiaramente dal racconto di docenti che faticano a rendere leggibile il proprio operato perché concentrati più sui singoli elementi costitutivi della loro esperienza che su una visione sincretica del processo agito.
Per Luciano Galliani, specificamente con riferimento alla pedagogia dei linguaggi visivi e audiovisivi, “il processo è il messaggio” [Galliani, 1979] tanto riguardo alla sua evoluzione storica quanto a quella tecnologica e sociale della sua produzione.
Accade così che molti docenti riconoscano a un software di Digital Storytelling d’immediato utilizzo come 1001Storia la capacità di renderli attenti a un processo che, spesso, si disegna quasi inconsapevolmente. Ad esempio, la richiesta di tracciare un piano editoriale della narrazione rappresenta, per i più, una scoperta interessante.
Mi sembra, allora, importante formare noi stessi e, di conseguenza, i nostri studenti a una consapevolezza essenziale del linguaggio audiovisivo cinetico anche, non da ultimo, in virtù di un uso creativo dello stesso come dimostra la scelta stilistica del regista Jean Luc Godard nel film “Fino all’ultimo respiro” [À bout de souffle] che ha messo a confronto la dimensione economica della fine degli ’50 con le sue ricadute sui discorsi inerenti al budget delle produzioni cinematografiche sofferenti a causa delle imposizioni dettate dal mercato a esse collegato.
La riluttanza verso i nuovi paradigmi didattici che caratterizza larga parte della scuola del nostro Paese è stata, sovente, oggetto di conversazione tra me e Marvi. Lei ed io ci siamo conosciute, di fatto, alla IUL per poi scoprire che ci siamo continuamente sfiorate in molte altre occasioni formative, anzi, per dirla tutta, abbiamo scoperto che facciamo praticamente gli stessi percorsi! Ci accomuna la passione per la tecnologia, una certa curiosità per tutto quello che è in grado di dare smalto a una didattica che, troppo spesso, segna il passo e una grande voglia di “restare a galla” (come dice Marvi) nel nostro lavoro. Questo ci ha permesso d’imparare quello che sappiamo e questo ci porterà (è quello che ci auguriamo!) a scoprire luoghi ancora sconosciuti o poco esplorati. Dal punto di vista del video – editing, Marvi è un “dispositivo didattico” (come direbbe Andreas) a dir poco interessante: “gioca” con le immagini fisse (ma non solo) con straordinaria levità. Decidiamo di mettere insieme le nostre esperienze e facciamo il punto della situazione: la mia esperienza professionale è maggiormente legata al linguaggio audiovisivo cinetico; l’esperienza di Marvi è particolarmente ricca nella manipolazione delle immagini fisse.
Io proverò a rendere evidenti con semplicità le tracce essenziali del linguaggio audiovisivo cinetico (senza entrare in dettagli di cui la rete abbonda, ma ragionando, essenzialmente, della sua valenza formativa), mentre Marvi ci introdurrà in una dimensione squisitamente operativa dimostrando concretamente l’assunto di Galliani: “il processo è il messaggio” e l’esperienza laboratoriale deve permeare di sé l’intero arco scolare di un soggetto in formazione, laddove il laboratorio non è un luogo chiuso destinato a pochi docenti smanettoni incorreggibili, ma esprime una nuova filosofia apprenditiva e formativa.
Concludo con un’interessante riflessione emersa dai nostri scambi comunicativi: infine, quanto di tutto quel che facciamo modifica realmente il nostro agire professionale (ma anche non)?
Una cosa ci par vera: è questo il nostro obiettivo, ci proviamo e sempre ci proveremo.
Alessandra e Marvi